Sanità e Territorio

CORONAVIRUS e caos tamponi:
chi ha l’obbligo di farli?

Sintomatici, asintomatici, test rapidi: in un momento di grande caos, è bene conoscere le regole: il Dottor Ugo Piccarreta, medico di famiglia, ci aiuta a fare chiarezza sul tema. Con lui abbiamo parlato che di Usca e di vaccini antinfluenzali per capire quali criticità vive la categoria medica.

Che fase stanno attraversando i medici di base, tenendo conto della seconda ondata pandemica e del “panico generale” che si è scatenato tra i cittadini? I dpi sono sufficienti a “proteggervi”?

E’ una fase complicata per l’effetto del nuovo aumento della curva dei contagi, che ha determinato maggior impegno per noi medici, sia temporale che mentale. Ho contatti continui con molti del “Distretto H2 della Asl Roma 6” e parliamo di ben 90 medici che non si sono mai fermati, con gli studi aperti dalla scorsa primavera che hanno lavorato incessantemente. Oggi le difficoltà sono addirittura aumentate sia per l’aumento del carico burocratico giunto in conseguenza dei provvedimenti presi da marzo in poi, sia per la nuova ondata, che ha generato una richiesta abnorme di controlli. I cittadini hanno bisogno di essere tranquillizzati, vogliono tutti fare il tampone, ma bisogna spiegare come utilizzarlo con i giusti tempi e i giusti modi. Per noi medici è diventata una battaglia quotidiana sul campo e ci impegna 24 ore su 24. Viviamo in una condizione di sovraccarico importante, che non accenna a diminuire. In più un elemento che voglio sottolineare è il caricare di nuove incombenze la medicina generale, che non ha la possibilità di ottemperare, come ad esempio con la campagna vaccinale, che va avanti ma con grandi difficoltà.

Prima di affrontare il tema vaccini, vorremmo fare chiarezza proprio sui tamponi. Lei sottolinea la richiesta enorme di volersi tamponare da parte dei cittadini: ma chi deve veramente mettersi in coda per un tampone? Con quali modalità e tempistiche?

Si è giunti di recente ad una chiarificazione con delle linee guida precise: per chi ha avuto contatti con una persona positiva per più di 15 minuti, senza distanza di due metri e senza mascherina, la prima cosa da fare è auto-isolarsi. A quale punto o si aspetta il decorso dell’isolamento di 14 giorni, perché le evidenze parlano di abbassamento della contagiosità del virus dopo due settimane, oppure si fa un tampone in uscita dopo dieci giorni. Se il tampone è negativo, può considerarsi libero, altrimenti no e dovrà proseguire con l’auto-isolamento fino a nuovo tampone. Chi invece ha dei sintomi, quindi è potenzialmente infetto, con possibili campanelli d’allarme come febbre o tosse, dopo una valutazione del medico di base anche telefonica, farà inizialmente il tampone rapido, che ha la caratteristica di dare buone risposte in termini di negatività. Se invece risulterà positivo, dovrà fare subito anche il molecolare, che darà la conferma dell’eventuale stato di positività. Se invece il tampone rapido sarà da subito negativo, si tratterà di una semplice influenza. Bisogna comunque far passare qualche giorno per non rischiare dei falsi risultati, poiché il virus inizialmente può essere latente. In quel caso bisogna comunque auto isolarsi.

In caso di positività del tampone molecolare, come bisogna comportarsi?

Dopo il primo test molecolare si fa un altro tampone, dopo una settimana: se diventa negativo, il virus ha compiuto il suo excursus nell’organismo, quindi la persona è guarita. Se invece resta positivo, si eseguono altri tamponi fino al ventunesimo giorno, ma a quel punto non sarà più infettivo e pericoloso per gli altri. Purtroppo registriamo un panico generale, dettato dalla forte paura: è importante far capire ai pazienti quando è realmente il caso di fare il tampone rapido, molecolare, oppure quando non è necessario. Questo punto è molto importante perché altrimenti continueremo a vedere file chilometriche ai drive-in. In più bisogna tenere conto che l’attenzione va rivolta soprattutto ai pazienti affetti da patologie croniche e agli anziani, che andrebbero controllati, visitati, ed eventualmente posti in terapia. Ma su questo mancano linee univoche quindi le terapie risentono molto delle iniziative personali.

Un iter piuttosto complesso che, tra l’altro, comporta dei rischi anche voi medici. Siete sufficientemente attrezzati?

Il problema è andare a visitare i pazienti. Cerchiamo di garantire assistenza continua, sia diurna che notturna, tramite triage telefonico. La procedura di vestizione per andare a fare i tamponi a casa prevede 40-50 minuti di tempo, che verrebbe tolto alle altre attività dello studio. Ho proposto qui in zona, come “coordinatore Covid” del mio distretto, di usare le strutture presenti sul territorio per fare i tamponi ed aumentare quindi la capacità di tamponare le persone. Ma è importante farlo fuori dai nostri studi medici, che quindi potrebbero continuare ad operare in sicurezza. Ma questa soluzione non è proprio di pronto utilizzo, quando invece sarebbe molto semplice poterla attivare! Poi c’è il carico psicologico e di stress che coinvolge l’intera categoria ed è un aspetto importantissimo che travolge tutti noi perchè siamo subissati da richieste di ogni genere: siamo il primo punto d’incontro con i cittadini quindi tentiamo di dare risposte puntuali a tutti, ma questo ci ha caricato di enorme stress. So di molti casi di burnout tra colleghi, che sono allo stremo. Io stesso sento questo peso e questo senso di disagio e di stress è molto forte. Al di là delle lamentele, le difficoltà sono oggettive: non ci siamo mai risparmiati e continueremo ad incentivare i buoni comportamenti, anche da parte dei cittadini, ma questa seconda ondata ci ha messo davvero in difficoltà. In più c’è sempre il timore dei pazienti che non presentano sintomi, ma poi risultano positivi, quindi occuparsi di tutti è difficile. Insomma, i tamponi negli studi medici sono un rischio in più!

Ritiene che le Usca siano state sufficientemente d’aiuto?

Le Regioni avevano messo in piedi le Usca, che però sono fallite nel loro intento, perché non sono state correttamente implementate e supportate. Le Usca erano nate proprio per visitare i pazienti a domicilio, con lo scopo nobile di non intasare gli ospedali, ma l’aspetto organizzativo è stato lacunoso. Basterebbero pochi medici per ogni distretto, ma sarebbe altresì doveroso munirli degli strumenti corretti e necessari per permettere loro di lavorare in sicurezza. Se così fosse, le Usca sarebbero la soluzione ideale per affrontare il problema. C’è però da fare ancora molto. Il tempo c’era ma è stato usato male, questo resta un grande rammarico, ma speriamo che la situazione sia gestita meglio, per quanto ad oggi i nostri appelli siano caduti nel vuoto. Se ci fossimo mossi per tempo, già da qualche anno, per generare strutture specifiche sul nostro territorio, dove invece hanno chiuso molti ospedali, oggi potremmo lavorare meglio. Dotare gli studi medici di strumenti diagnostici, ci aiuterebbe ad essere più efficaci nell’affrontare la pandemia. Il problema dei tamponi non si sarebbe posto; invece purtroppo è tutto fermo.

Veniamo al tema “vaccini antinfluenzali”: come procede la campagna?

Prima si dedicava del tempo in più alle vaccinazioni, facendo arrivare gruppi di pazienti tutti insieme per vaccinarli, ma ora le misure non ci permettono assolutamente di operare in quel modo. La prospettiva è quindi di finire la campagna molto più avanti rispetto agli anni passati. L’approvvigionamento dei vaccini era stato garantito, ma abbiamo avuto solo una prima tranche di dosi e parte della seconda, che ora è finita. Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che gli studi medici per la maggior parte dei casi si trovano all’interno dei condomini, in degli appartamenti, e questo incide sul contesto: i condomini sono preoccupati dell’afflusso delle persone e si oppongono. Sui vaccini ci vorrebbe un’attenta programmazione e l’uso di strutture extra studio. Infine la ciliegina sulla torta è stata l’idea malsana di proporre i tamponi antigienici direttamente negli studi dei medici. Non ci sono le condizioni, nel modo più assoluto! Basti pensare alla possibilità che arrivi qualcuno già positivo al Covid, che ha quindi la probabilità di contagiare gli altri pazienti. A quel punto bisognerebbe chiudere lo studio, sanificarlo, ridurre le attività, con i rischi di contagio anche per noi medici, che vediamo pazienti con patologie fragili. Infine lo studio medico è un ambiente chiuso e con l’inverno alle porte si dovranno tenere anche le finestre chiuse. Problemi su problemi che continuano ad accavallarsi e che certamente non facilitano il nostro lavoro.