Cultura è Salute

OLTRE IL CAMICE VERDE,
storie di coraggio, dolore, amore e amicizia – come “Lucertole”

9 Novembre 2020

Il romanzo della Dott.ssa Laura Minguell Del Lungo parla di pazienti, di dolore, di malattia, ma anche di resilienza, di coraggio, di amore e di amicizia, in cui i personaggi, prima di essere pazienti, medici, amici o compagni, sono esseri umani. 

Com’è nata l’esigenza di scrivere questo romanzo?

L’esigenza di scrivere Lucertole è nata con la mia necessità di raccontare. Anche gli aspetti più banali della quotidianità assumono spesso dentro di me le fattezze di un racconto. La continua rielaborazione di fatti, persone, luoghi e tempi genera delle storie articolate in cui si intersecano situazioni che nella realtà possono anche non essere correlate. Allora interviene la fantasia a incrociare i dati. Ho poi il privilegio, per esperienze e professione, di incontrare molta gente, di assistere a molti avvenimenti personali, venire a conoscenza di molte storie di vita. Se si mette tutto insieme, ne deve per forza venir fuori un romanzo! Lucertole, tra gli altri progetti, è nato ai tempi della mia rotazione nei reparti di terapia intensiva, durante la scuola di specializzazione in anestesia e rianimazione. Fu un periodo duro a livello personale: bisognava sconfiggere gli incubi, le paure, le insicurezze, affrontare lo stress quotidiano e sopportare il dolore che causava all’anima entrare in contatto con tanta sofferenza. Dovevo trovare il modo di distanziare il tutto da me, di oggettivarlo. Dovevo scriverlo: sul pezzo di carta non fa più male. Avvertivo la mia solita necessità di raccontare quel che vedevo: tutte quelle persone che mi passavano davanti, come in un film, con le loro malattie, i loro incidenti, le loro sofferenze e le loro battaglie; e anche gli altri, quelli che di loro si prendevano cura. Medici, infermieri, ognuno con suo bagaglio di vita, col suo carattere e i suoi turbamenti. Tutti personaggi muti che scorrevano in diretta di fronte ai miei occhi. Dovevo dare loro una voce. Così, a poco a poco, prese forma dentro di me Lucertole, arricchito poi da altri incontri, altri esperienze, altri luoghi. In realtà, a ben vedere, non si tratta di un’opera finita, perché Lucertole è fatto di vita, e la vita continua anche quando si chiude il libro, anche quando è morto l’ultimo personaggio. La vita continua e ha bisogno di essere raccontata. Per cui ci saranno tanti seguiti di Lucertole, tante storie che continuano a succedere mentre racconto. Nella finzione e nella vita vera. Comunque, durante tanti anni, Lucertole era rimasto un’accozzaglia di personaggi, avventure e idee, senza organicità. Fu la morte prematura di uno stimatissimo collega l’anno scorso che mi diede la spinta. In concomitanza con una partecipazione casuale a un concorso letterario, nel quale ebbi la fortuna di incontrare l’editore, decisi che dovevo rendere giustizia al mio maestro e collega regalandogli un pezzetto di eternità.

Quali tematiche si affrontano?

Le tematiche che affronto nel romanzo sono diverse: in primo luogo descrivo l’ambiente ospedaliero, filtrato però attraverso lo sguardo di un anestesista rianimatore. Si parla quindi di pazienti, di dolore, di malattia, ma anche di resilienza, di coraggio, di amore e di amicizia. Racconto come le vite di varie persone, anche molto distanti geograficamente o culturalmente, siano poi invece intimamente collegate dal succedersi degli eventi. Intendo mostrare come tutti apparteniamo alla stessa umanità, al di là delle convenzioni sociali, dello status economico, dell’appartenenza religiosa. Umanità fatta di desideri, empatia, ricchezza ma anche di debolezze e vulnerabilità. I miei personaggi, prima di essere pazienti, medici, amici o compagni, sono esseri umani. Tutti.

I medici “curano” anche con le parole? Quanto è importante e decisiva l’empatia con il paziente?

I medici curano anche con le parole. Certo. Spesso soprattutto con le parole. L’empatia è fondamentale nella relazione medico-paziente. Negli ultimi anni mi sto occupando di terapia del dolore, e ho scoperto, tra le altre cose, come in questo ambito in particolare la relazione tra medico e paziente sia un aspetto fondamentale del processo di cura. Molto spesso i pazienti, a parità di prestazione, si sentono meglio curati semplicemente per i cinque minuti in più che gli hai dedicato ad ascoltarli.

La pandemia, secondo lei, ha cambiato la percezione dei medici e degli operatori sanitari, definiti “eroi” da tutti?

La pandemia, per il tempo che sono durati la paura e lo sconcerto, ha cambiato la percezione della gente rispetto alla classe medica in generale, includendo tutti gli operatori della sanità. La definizione di “eroi”, a mio parere del tutto falsa e fuori luogo, probabilmente è nata per la buona fede di alcuni. Ma è diventata virale, a mio giudizio, per la mala fede di altri. Mi riferisco a chi ha tatticamente usato l’immagine degli eroi per rappresentare un collettivo di professionisti della salute letteralmente mandati al macello. Perché? Per colmare il vuoto di una pianificazione strategica, di una prevenzione del rischio e di una coordinazione tra stati. Ma non voglio addentrarmi nella polemica sulla gestione della pandemia da SarsCov2, non è questa la sede e non basterebbero le pagine. Quello su cui mi centro invece è l’aspetto della figura del medico in Italia, figura che si barcamena tra l’essere un eroe, un martire destinato al sacrificio personale in nome di una vocazione che si suppone debba averlo spinto verso la professione, e l’essere un poco di buono senza scrupoli che si approfitta della sofferenza altrui e quindi meritevole solo di essere denunciato. La favola dell’eroe è stata utilizzata anche altrove, non solo in Italia: io vivo e lavoro in Spagna e anche qui hanno abbondantemente abusato dell’espediente. In Lucertole non ci sono eroi, ci sono solo persone coraggiose, persone generose, persone grandiose. Ma persone. Io personalmente non mi sento ne desidero essere un eroe: sono una lavoratrice, sono un medico, mi piace il mio lavoro e desidero farlo al meglio e nelle migliori condizioni possibili.

Tutto quello che ci racconta è molto in linea con la filosofia promossa dal nostro network di “Cultura è Salute”, cosa ne pensa?

Il portale “Cultura è Salute” è straordinario! Il connubio tra cultura umanistica, artistica e scientifica è fondamentale e necessario. C’è bisogno di più cultura e di più consapevolezza. Il personale sanitario ha bisogno di formazione umanistica, di conoscenze sulla società e del conforto dell’arte. I pazienti hanno bisogno di conoscenze scientifiche, hanno bisogno di sapere cosa sta loro succedendo, e poi hanno bisogno di rinfrancare il proprio spirito con la bellezza, con l’emozione, attingendo al patrimonio culturale dell’umanità. La musica, per esempio, è una forma d’arte grandiosa, di una potenza emotiva e di un potenziale evocativo mostruosi! In Lucertole la musica è presente dal primo all’ultimo capitolo, proprio per la sua capacità di catalizzare l’energia positiva e annientare le paure, per la sua immediatezza. La musica ha un linguaggio universale. Dovrebbe esserci musica in ogni luogo di cura. Umanizzare questi posti è assolutamente necessario: i pazienti hanno bisogno di sentirsi persone, non organi, numeri o malattie. Spesso, presi dal vortice delle mansioni assistenziali, noi medici tendiamo a trascurare l’individualità dei nostri pazienti. In questo devo riconoscere che gli infermieri sono generalmente molto più attenti, anche grazie al tipo di relazione che la loro professione richiede. C’è bisogno di spazi e soprattutto di tempi in cui l’essere umano che sta dietro al camice possa incontrare sé stesso: solo in questo modo potrà incontrare l’altro essere umano che ha di fronte. Insomma: credo che il progetto di “Cultura è Salute” sia straordinario, e spero che iniziative simili possano trovare vieppiù spazio negli ospedali di tutto il mondo.